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Curare la pandemia: ho scelto le mani

 

"Beati siano gli istanti, e i millimetri

e le ombre delle piccole cose,

ancora più umili delle cose stesse! "

Fernando Pessoa

 

 

Francesca SIRNA, sociologa presso il CNRS di Marsiglia, mi ha invitata a collaborare come artista fotografa alla sua ricerca sulle carriere del personale ospedaliero con formazione straniera nel sud della Francia e sulla loro esperienza durante la pandemia SARCOV-19. Riteneva che le parole non fossero sufficienti ad esprimere la sofferenza testimoniata dalla maggior parte delle persone intervistate, una sofferenza che riguardava sia la loro carriera professionale sia il loro vissuto di migranti.

Certo, non tutte le persone intervistate hanno parlato di un percorso doloroso, ma per ognuna di loro le scelte professionali hanno avuto un'influenza importante e definitiva sulla loro vita personale e familiare.

La ragione che ha spinto Francesca ad aggiungere delle immagini al racconto mi ha accompagnata nel corso di questa avventura estremamente ricca dal punto di vista umano e, a tratti, anche commovente.

Il tempo trascorso con le persone fotografate è stato breve, a seconda della loro disponibilità e, soprattutto, per le difficoltà ad ottenere il permesso di fotografare negli ospedali.

La breve durata di un'intervista rimane comunque un momento intenso, durante il quale la persona narra il percorso che l'ha portata fino qui, in uno sforzo di memoria che le fa rivivere emozioni forti.

 

Sono loro riconoscente : anche se in modo impercettibile, le loro storie mi hanno trasformata profondamente.

 

IL MIO LAVORO DI ARTISTA FOTOGRAFA

 

Nel mio lavoro di artista fotografa, la relazione è più importante dell'estetica, della tecnica e della linearità della narrazione. Descrivo ogni volta la vicenda di un incontro, quello tra me e la persona fotografata. Il suo discorso si intreccia al mio. La macchina fotografica ci unisce, ci separa, scandisce il tempo e determina il ritmo del nostro vicendevole avvicinarci.

Non utilizzo lo schermo dell'apparecchio digitale. Preferisco guardare nel mirino, chiudere un occhio per proteggermi dalla luce invadente e da ogni tentazione del mondo di fuori. L'obiettivo attenua un po' la mia timidezza, alza la mia soglia del pudore e ho l'impressione che permetta alla persona che ho davanti di sentirsi vista, ascoltata, forse amata... perché no?

 

La fotografia è soprattutto una questione di umanità.

 

Non decido mai in anticipo che cosa voglio o che cosa mi aspetto da un incontro. Mi chiedo, invece, che cosa riusciremo a fare insieme in un determinato momento e come la mia macchina fotografica potrà documentare questo evento unico.

 

Qualsiasi cosa succeda, ne saremo sorpresi.

 

 

LE RIPRESE

 

La maggior parte delle fotografie sono state scattate a casa dei partecipanti al progetto, sul luogo di lavoro e nei dintorni. In alcune occasioni, abbiamo visitato i luoghi più significativi legati alla loro professione e quelli che hanno frequentato durante la pandemia.

 

I protagonisti della ricerca hanno validato le fotografie da esporre e hanno collaborato attivamente alla narrazione.

 

In alcuni pannelli sono esposte delle loro vecchie immagini e delle fotografie che si sono scattati appositamente perché le potessi utilizzare nel contesto del progetto di ricerca.

Domenico ha ricreato i giorni del primo confinamento in famiglia e si è ripreso con il cellulare. Matteo mi ha inviato le fotografie di quel periodo passato in ospedale circondato dalla sua équipe - scatti che purtroppo non ho potuto utilizzare per questioni di autorizzazioni. Durante lo shooting, pero', ho potuto riprendere alcuni dei suoi colleghi sulla terrazza dell'ospedale e testimoniare di una coesione di squadra esemplare.

Con Olga ho visitato gli spazi universitari dove ha studiato per conseguire i suoi innumerevoli diplomi. Ripercorrendo gli stessi luoghi, Khaled si è accorto che l'ateneo resta ancora un locale impraticabile per lui, a causa della pressione vissuta in quella sala. Durante un viaggio Khaled mi ha mandato una foto della sua mano insieme a quella di suo figlio e di sua moglie. Era importante che sua moglie apparisse in questo racconto essendo stata un sostegno e una presenza fondamentale al suo fianco durante i suoi studi e tuttora.

È stato un grande piacere per me documentare la discussione della tesi di Ilyes sulle persone con disabilità gravi e multiple in Francia, che ha segnato la fine di una percorso di successo. 

Francesca ha espresso il suo stato d'animo durante la pandemia con un'ironica immagine che invita la gente a non uscire di casa per non ammalarsi e finire intubata da un neurologo! La specificità del suo lavoro all'ospedale La Timone di Marsiglia è l'utilizzo di un apparecchio chiamato MEG (magnétoencelographie) che abbiamo fotografato. Antoine ha accolto due volte me e Francesca SIRNA a casa sua. Sua madre ha accettato di posare con lui, seduta tra due quadri raffiguranti Beirut. A casa di Antoine c'erano varie cose interessanti, molte delle quali ricordavano il Libano. Tra queste una fotografia di Mikhal Naimy, poeta e scrittore libanese e una sua citazione in arabo:

 

“Se gli esseri umani avessero conosciuto Dio, non lo avrebbero diviso in ebraico, cristiano, musulmano, buddista e pagano. Poiché un essere umano non versa il sangue di un altro essere umano, né odia un altro essere umano per amore di Dio”.

 

 

A casa di Rachida erano presenti oggetti che ricordavano l'Algeria. Mi è piaciuto fotografare il suo mondo alla luce di un tramonto autunnale. Quel giorno, gli oggetti (definizione di oggetto : ogni cosa concreta, materiale, che può essere percepita dai sensi; in particolare cosa prodotta dall'uomo) mi sono sembrati davvero importanti per la realizzazione di questo lavoro.

Essendo io stessa una migrante, conosco l'attaccamento alle cose che ci accompagnano lungo il viaggio (definizione di cosa : oggetto che è in relazione con un soggetto che lo detiene). Sono oggetti che ci permettono di tessere un filo con un capo e una coda, un legame che ci aiuta a orientarci nello spazio, nel tempo, nel confuso mondo delle emozioni e che ci permette di ripercorrere la strada all'indietro senza perderci, come fu per Arianna. Ed è anche un filo che protegge, che nutre, che conferma un'origine e misura il cammino percorso come può esserlo il cordone ombelicale per il neonato, finché non viene tagliato. Infatti, se malauguratamente ci dobbiamo separare da questi oggetti, abbiamo l'impressione che qualcosa muoia. Poiché partire comporta inevitabilmente una perdita, separarsi da un ricordo conferma che il danno è irrimediabile. Ci mette di fronte al fatto che, anche se torneremo, nulla sarà più come l'abbiamo lasciato. Nemmeno noi, così come eravamo allora, non esistiamo più.

 

In seguito a queste riflessioni, ho chiesto esplicitamente a Ilyes, a Francesca, a Samad e a Khaled di portarmi, se lo desideravano, qualsiasi cosa che destasse in loro un sentimento di appartenenza, di legame e di continuità con il loro paese, la loro cultura, la loro lingua, la loro famiglia d'origine... qualcosa di caro.

Durante le riprese Ilyes ha portato con sé il suo tappeto di preghiera, Samad mi ha mostrato una borsa di tela annotata dai suoi amici e dalle sue amiche al momento della sua partenza per Marsiglia. Francesca mi ha mandato una foto della gatta che aveva portato con sé dall'Italia e che è deceduta in Francia. Si chiamava Saki, detta Caco', ed era bellissima. Il giorno dell'intervista Khaled si è messo al collo un ciondolo con i nomi dei suoi figli.

 

HO SCELTO LE MANI

 

Durante le interviste, mentre fotografavo i partecipanti al progetto di ricerca, notavo quanto le espressioni facciali fossero evocative della loro vita interiore e come inducessero naturalmente a provare empatia per il loro vissuto, per le peripezie evocate. Durante l'isolamento, tuttavia, le nostre bocche e i nostri nasi erano coperti da maschere, potevamo vedere solo gli occhi e abbiamo imparato quanto fosse importante lavare accuratamente le mani per evitare il contagio.

Improvvisamente, le mani che lavoravano, che auscultavano, che operavano, che visitavano, che aiutavano a partorire, che scrivevano, che toccavano, che gesticolavano, che ordinavano, che chiedevano, che ricevevano, che pregavano, che indicavano, che picchiettavano, che facevano e disfacevano alleanze, che accarezzavano, che nascondevano lacrime e risate erano colpevoli di trasmettere un virus mortale.

Nel corso di questo lavoro mi sono soffermata a lungo sulle mani e ho scelto di rappresentarle al pari degli occhi e dei volti, perché le trovo belle e talvolta inaspettate nel senso che possono risultare disgiunte dal resto della persona. Un volto, un corpo o una personalità non hanno sempre le mani che ci si aspetta.

 

Ma, soprattutto, credo di aver scelto le mani perché è con esse che il più delle volte ci prendiamo cura gli uni degli altri.

 

IL LAVORO GRAFICO

 

Il lavoro grafico realizzato in seguito da Cinzia Liverano & Gaia Rizzitano per graphic gc e graphic-gc.it si ispira più al mondo del cinema che a quello del documentario. Giochiamo con questo riferimento cinematografico per suggerire un legame tra le acclamate star del cinema e il ruolo eroico degli operatori sanitari durante il periodo della pandemia.

Una scelta ironica, se volete, che impone pero' di prendere sul serio i professionisti del settore. Se è vero che il senso comune mette la salute al primo posto nella definizione della qualità della vita, e che la crisi sanitaria ci ha fatto vivere con dolore questo adagio, io credo che chi si dedica alla cura degli altri deve essere riconosciuto secondo gli stessi criteri di valore e di importanza.

Attraverso questi ritratti voglio invitare a riflettere sulla giustezza di riconoscere una persona esclusivamente per le sue competenze professionali e per il lavoro che svolge. Le composizioni comprendono diverse sfaccettature di ogni partecipante: i gesti, gli spazi di vita e di lavoro, i familiari, i colleghi, gli interessi, e si soffermano sull'espressività e il gusto di ciascuno. Voglio raccontare di una complessità umana che è la ricchezza e l'unicità che ognuno di noi porta sul luogo di lavoro. Tenerne conto è a mio avviso un atto preliminare e necessario al cambiamento verso una società cosiddetta 'inclusiva'.

 

La vita personale non può soccombere alle esigenze lavorative o essere danneggiata da percorsi professionali estremamente difficili e complessi.

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